Ha suscitato dibattito la proposta della premier finlandese Sanna Marin di accorciare la settimana lavorativa a soli 4 giorni, con un orario di 6 ore ciascuno, senza alcuna riduzione di stipendio. In totale, 24 ore di lavoro alla settimana. Diciamo subito che Sanna Marin è membro del Partito Socialdemocratico Finlandese, che siede al parlamento europeo nello stesso gruppo del Partito Democratico italiano. Nulla, quindi, di anticapitalista o anche solo riformista nel senso “classico” del termine. Ci permettiamo perciò di dubitare che le sia chiara fino in fondo l’implicazione politica di una tale proposta: ovvero che la stessa è realizzabile solo a condizione di un enorme trasferimento di valore dai profitti ai salari. Di ciò ha invece piena consapevolezza la borghesia italiana, tant’è che il suo quotidiano di riferimento, il Corriere della Sera, il giorno immediatamente successivo alle dichiarazioni della premier ha pubblicato un editoriale intitolato: «Settimana di quattro giorni: bella l’idea finlandese, peccato che non funzioni».

Resta il fatto che la proposta finlandese fa discutere perché coglie un problema reale: ovvero l’alternativa secca tra una crescente disoccupazione di massa e la riduzione dell’orario di lavoro. E, allo stesso tempo, segnala il potenziale liberatorio che deriverebbe dall’evoluzione storica della tecnologia e dei processi produttivi, se il valore degli incrementi di produttività che ne derivano non fosse totalmente accaparrato da una minoranza sempre più ristretta dell’umanità.

La sinistra italiana solo episodicamente si appassiona al tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Altre sue componenti storiche, poi, preferiscono parlare di “fine del lavoro” e di “reddito garantito”, anche sulla scia delle illusioni suscitate dal Reddito di cittadinanza introdotto dal governo Salvini – Di Maio.

Proprio del rapporto tra la rivendicazione del reddito garantito e quella della riduzione d’orario a parità di salario si occupava un articolo di Michel Husson, pubblicato su bandiera Rossa, n. 96, febbraio 2000, di cui riteniamo utile riproporre un estratto (m.p.).

Lavoro e reddito

di Michel Husson, da “Bandiera Rossa”, n. 96, febbraio 2000

Da un punto di vista strategico, la rivendicazione di forme di reddito garantite deve essere sicuramente assunta dal movimento sociale, nel momento in cui l‘insufficiente creazione di posti di lavoro produce uno strato di lavoratori senza lavoro e dunque senza reddito. È questa una scelta che non si presta a particolari discussioni, se non attorno al tipo di articolazione che questo reddito garantito deve instaurare con le rivendicazioni puramente salariali. Invece, è necessario rigettare l‘idea che il reddito minimo è la sola risposta possibile e coerente ai progressi futuri della produttività. O meglio, ciò è vero solo in un caso particolare, quello in cui si suppone che l’evoluzione della durata del lavoro è bloccata. In tale situazione, i guadagni di produttività spingono verso una riduzione relativa dei posti di lavoro e si traducono in un abbassamento della parte dei salari. Se diamo per acquisito il fatto che la riduzione del tempo di lavoro è bloccata, allora è chiaro che è indispensabile liberare reddito per i disoccupati. Si ha il diritto di considerare questo scenario come possibile, malauguratamente. Ma non è legittimo farne una legge assoluta, né un modello sociale auspicabile.

Immaginiamo una società che gestisca in maniera razionale quella che abbiamo chiamato l‘equazione di produttività. In un primo momento, essa riconduce la parte dei profitti ad un livello più consono, trasformando i redditi dei rentiers in salari attraverso la creazione di nuova occupazione associata alla riduzione del tempo di lavoro. La disoccupazione si riduce in misura significativa. Che farne a questo punto dei guadagni di produttività? Dopo averne assegnato una parte “ragionevole” al profitto, per poter finanziare l‘accumulazione, la società deve a questo punto combinare due modalità di crescita della propria ricchezza. Ammettiamo che scelga per una progressione “sostenibile” del salario per persona e che quindi destini la maggior parte dei guadagni di produttività a una riduzione del tempo di lavoro. Una società che funzioni razionalmente potrà eliminare una quantità considerevole di lavoro superfluo e parassita direttamente legato alla concorrenza capitalista, lavoro di cui siamo lontani dal vederne la fine. Si arriverebbe molto velocemente a un vero lavoro a metà tempo per tutti e tutte, con la possibilità di modularlo in svariati modi sull’arco della vita. Una società simile potrà istituire una sorta di contratto sociale che garantisca il diritto al lavoro, e dunque un reddito, per l‘insieme dei suoi membri. La capacità di padroneggiare i propri fini che una società simile eserciterebbe e la garanzia reale del diritto al lavoro trasformerebbero in misura significativa la natura del rapporto salariale. Nuove forme di distribuzione del reddito potranno apparire attraverso l‘estensione del campo del salario socializzato e di quello della gratuità.

L‘impossibile pieno impiego?

Possiamo considerare questa società come utopica, idilliaca, fuori dal mondo, o invece insufficientemente in rottura con i meccanismi economici attuali. Tutto sta nel capire se queste difficoltà di definizione sono invece eliminate dal progetto di un sussidio universale o di un reddito garantito. Quest‘ultimo è una condizione transitoria per raggiungere il pieno impiego o, al contrario, il contrappeso necessario per l’ormai appurata irraggiungibilità del pieno impiego? I teorici della fine del lavoro sono accomunati dal credere che ormai nessuna forma di riduzione del tempo di lavoro possa creare un numero sufficiente di posti di lavoro, tale da poter giungere ad una situazione di pieno impiego. Solo il reddito garantito permetterebbe invece di uscire dall’impasse attuale.

Questa posizione oscilla costantemente tra due registri differenti, l‘uno e l‘altro poco convincenti: una rassegnazione teorizzata osservando staticamente la realtà attuale e un modello utopico costruito attraverso una sequela di “forzature” della realtà.

La situazione attuale è caratterizzata dal fatto che non si assiste ad una riduzione del lavoro, ma contemporaneamente, però, l‘impressione è che l‘obiettivo del pieno impiego sia ormai irraggiungibile. […] All‘argomento secondo il quale il pieno impiego è ormai irraggiungibile, si accompagna l‘idea per cui stiamo andando verso una società “a lavoro zero” e che ci si ostina a remare contro quest’evoluzione. Si giunge a conclusioni di questo tipo per approssimazioni successive, attraverso continue forzature nel ragionamento. […] Il fatto è che la tesi del reddito garantito come unica risposta adeguata alla fase necessita di queste forzature. Solo nel momento in cui la quantità di lavoro dispensata diventa nulla, non esiste allora effettivamente più alcuna possibilità di mantenere un legame tra il modo di distribuzione del prodotto sociale e l‘erogazione di lavoro.

Tutte queste forzature sono indispensabili per dare corpo, ancor prima di abbassarsi ad analizzare la meschina realtà, alla prospettiva della sconnessione del reddito dal lavoro. Per alcuni teorici della fine del lavoro, il discorso sui mutamenti epocali che colpiscono il lavoro è utile innanzitutto per screditare qualsiasi riflessione sulle alternative ai miserrimi sussidi di povertà oggi erogati. Che la rivendicazione di un Reddito Minimo d‘Inserimento (RMI) […] possa essere presentato – in ragione di questa prospettiva fumosa – come una vetta di radicalità, mentre la richiesta della settimana di 35 o 32 ore sarebbe solo una razionalizzazione dei meccanismi di sfruttamento, dovrebbe perlomeno renderci prudenti! Non si può valersi di un’assai ipotetica abbondanza ormai raggiunta per far diventare la questione del reddito la dimensione esclusiva della trasformazione sociale, come se la questione del lavoro fosse già risolta per dissoluzione spontanea.

Proviamo a prendere le cose ancora da un altro angolo di visuale. La riduzione del tempo di lavoro con creazione di occupazione proporzionale e mantenimento del potere d’acquisto suppone in un primo momento una riduzione della parte dei profitti. Il mantenimento del tempo di lavoro attuale con una riduzione dei posti di lavoro compensata dall’istituzione di un sussidio universale avrebbe effetti diversi? Se non va ad incidere sulla ripartizione dei redditi, questa ipotesi si riduce allora ad una spartizione delle briciole tra i lavoratori, ad una squallida gestione della miseria, che certo non può pretendere al titolo di progetto alternativo. Se invece questa forma di reddito garantito dovesse essere finanziata da un abbassamento significativo delle rendite e dei profitti, cosa può portarci a pensare che questo risultato sia, dal punto di vista dell’offensiva sociale che implicherebbe, più facilmente perseguibile di una “buona” riduzione del tempo di lavoro?

Fine del lavoro e terzo settore

È infine necessario sottolineare un’altra contraddizione che attraversa molte delle analisi sulla fine del lavoro, nelle loro versioni meno radicali. Essa concerne il tema dell’attività che dovrebbe soppiantare il lavoro salariato ed essere riconosciuta socialmente, cioè remunerata. C’è chi, come Rifkin, presenta lo sviluppo di un terzo settore come lo sbocco della fine del lavoro, congiuntamente alla riduzione del tempo di lavoro. Torna così ad affacciarsi l’incoerenza. Non è possibile infatti una volta spiegare che si sta andando in direzione di una società in cui la creazione di ricchezza è indipendente dal lavoro, e scoprire la volta dopo che esistono enormi giacimenti di lavoro in settori oggi non sfruttati. Questi due modelli non sono compatibili tra loro. Se il lavoro è in procinto di scomparire, non è per ripresentarsi sotto forma di “attività”. Se è la fine del lavoro che si sta presentando all’orizzonte, allora ciò dovrebbe significare un’enorme quantità di tempo libero e — appunto — la necessità di mettere a disposizione un reddito universale che ci dispensi da ogni tipo di attività remunerata e ci trasformi in gestori di questo tempo libero. Il modo con il quale utilizzeremo questo tempo può essere chiamato in mille modi, ma sarà un’attività gratuita, non mercantile. La nozione di terzo settore introduce invece un’altra idea, cioè che quest’attività per sua natura gratuita dovrà invece essere riconosciuta e suscitare posti di lavoro remunerati.

Nella concezione “pura” del sussidio universale, la questione non si pone neppure: la sconnessione totale tra reddito e lavoro, e l’abbondanza di beni e di servizi, farebbero scomparire la categoria stessa di “attività”. Ma è questo un mito che non regge il confronto con la realtà dei fatti, a meno di postulare un’autosufficienza totale degli individui. Nel momento in cui l’uno ha bisogno dell’altro, siamo costretti a reintrodurre il tema del lavoro. Se sono dentista, il servizio che rendo curando la carie del mio vicino ripiomba nella dimensione del lavoro, a meno che non postuliamo una dedizione spontanea per ogni genere di attività e una armonia sociale perfetta. Se infatti il reddito è completamente sganciato dal lavoro, allora la disponibilità di servizi sarebbe lasciata all’arbitrio di coloro che li offrono e regolata dalla semplice simpatia. Tutto ciò si dimostra assai inconsistente e certo non serve all’elaborazione di un progetto di trasformazione sociale che non presupponga l’abbondanza assoluta già realizzata. In realtà, un po’ come i progetti di un sussidio universale finiscono per tradursi nel triste RMI, il terzo settore viene infine declinato nel sostegno al diffondersi dei lavori precari e sottopagati. Non si tratta della fine del lavoro, ma tutt’al più della fine del diritto al lavoro…

Il progetto radicale centrato sulla riduzione dell’orario di lavoro è decisamente più solido. Non ha bisogno di postulare la fine del lavoro (o l’abbondanza raggiunta), si limita a organizzare socialmente il suo progressivo deperimento. La sua logica consiste nel rifiutare la distinzione tra lavoro e “attività” e nel partire dall’esame dei bisogni sociali da soddisfare. Il principio che lo guida è quello di omogeneizzare le modalità di soddisfazione di questi bisogni, rifiutando la dicotomia tra quelli che appaiono come bisogni solvibili e quelli che dovranno esserlo, ma a condizione di pagare meno coloro che operano per soddisfarli. Se sconnessione deve esserci, è quella tra il salario dei lavoratori e la redditività diretta del loro lavoro, e questa sconnessione può avvenire solo attraverso una socializzazione delle scelte concernenti la distribuzione del lavoro nei vari settori economici. Che significa, in altri termini, il trasferimento di valore in direzione dei settori meno redditizi ma socialmente prioritari. Il ruolo dei servizi pubblici, della socializzazione dell’offerta e l’obiettivo della gratuità assumono in questo discorso un posto centrale. In un certo senso, questa prospettiva si oppone direttamente ai progetti ispirati dall’idea del terzo settore, mettendo al centro del ragionamento l’esigenza di un controllo diretto delle scelte sociali, cioè un controllo non mediato dal mercato.

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