di Luca Marchi e Giorgio Simoni

Logistica, trasporti, commercio, servizi: settori produttivi che hanno assunto un valore strategico per il funzionamento del tardocapitalismo e che, per questa ragione, sono teatro di duri conflitti sindacali. E a maggior ragione lo sono in questa «fase due» dell’emergenza da Covid-19, nella quale i padroni hanno in testa solo di riprendere a macinare profitti, mentre i lavoratori e le lavoratrici si preoccupano della propria salute, oltre che delle condizioni contrattuali generali.

La multinazionale del mobile Ikea, con la sua immagine democratica, sostenibile, attenta alle famiglie, ha gestito in modo perlomeno discutibile un passaggio cruciale di transizione verso la «fase due». In un primo momento ha infatti deciso di chiudere tutti i negozi, sottoscrivendo un accordo nazionale con il sindacato confederale di accesso alla cassa integrazione per tutte le maestranze (6.500 unità), impegnandosi a discutere ogni successiva modifica della situazione e la gestione delle eventuali riaperture. Ma dopo solo tre giorni, ha cambiato strategia, modificando in tutta fretta i codici ATECO, per poter riaprire parte dei magazzini e dei negozi, che si sarebbero occupati delle vendite on line. E questo senza alcuna interlocuzione con il sindacato, né a livello nazionale né locale.

E senza alcun confronto, Ikea ha modificato orari e turni dei dipendenti (che per l’80% hanno un contratto part-time e non per loro scelta), limitandosi a comunicazioni unilaterali ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza sulle novità gestionali, senza recepire nessun suggerimento, né dubbio o richiesta.

A una settimana dalla riapertura al pubblico del negozio di Corsico, la rappresentanza sindacale unitaria e i rappresentanti per la sicurezza hanno fatto il punto della situazione e, ha deciso di proclamare lo sciopero per il fine settimana (23 e 24 maggio), per tutelare sia i lavoratori che la clientela, ritenendo che manchino i requisiti minimi di sicurezza previsti. Purtroppo, si deve registrare la défaillance della componente sindacale confederale (UIL e CGIL), che ha preferito alzare bandiera bianca e non opporsi ai padroni svedesi. A sostenere la lotta c’è invece il Sindacato generale di base (SGB).

Da Corsico ci spostiamo a Peschiera Borromeo, dove ha sede TNT Express, corriere internazionale con quartier generale nei Paesi Bassi, che dal 2016 è una sussidiaria della multinazionale americana FedEx. Qui, sin all’inizio del mese, gli operai del sindacato Si.Cobas hanno incrociato le braccia, dopo una settimana di agitazione, perché l’azienda ha sospeso tutti i contratti a tempo determinato, assunti da Adecco, che avevano aderito agli scioperi promossi dallo stesso sindacato di base. Contestualmente, lo sciopero si svolgeva anche presso le filiale di Alessandria, nel quadro dello stato di agitazione proclamato a livello nazionale dal Si.Cobas. Fra i motivi della protesta, anche «la mancata sottoscrizione di un protocollo per l’applicazione di misure di sicurezza relativo al coronavirus».

Restando nel mondo degli spedizionieri, c’è tensione anche nel magazzino di Sedriano della BRT S.p.A., società controllata per l’85% dall’operatore postale francese La Poste. Carabinieri e militari sono intervenuti nello stabilimento lo scorso 20 maggio, mentre era in corso uno sciopero degli operai per protestare «contro il mancato rispetto del protocollo di accordo firmato con l’azienda». Il pretesto per l’irruzione dei militari è stato quello del “controllo del distanziamento” in relazione alle norme anti-contagio per il coronavirus, ma è evidente lo scopo intimidatorio nei confronti degli scioperanti. Già nei giorni precedenti, il sindacato Si.Cobas, organizzatore della protesta, aveva denunciato un intervento dei militari.

E un altro intervento repressivo dei militari è denunciato ancora dal Si.Cobas, questa volta con teatro la sede di Milano di United Parcel Service, multinazionale americana attiva nel trasporto di pacchi e nella logistica. Qui è in corso uno sciopero, a causa della condizione di cassa integrazione che colpisce i lavoratori da più di un mese. Una situazione che, secondo il sindacato, non sarebbe giustificata da un effettivo calo delle commesse, la cui è gestione è stata semplicemente spostata verso altri siti produttivi. Si tratterebbe, in realtà, del tentativo di “azzerare” un magazzino inviso alla proprietà, perché fortemente sindacalizzato.

Dalla logistica passiamo ai call-center. Abbiamo già parlato, in queste pagine, di Almaviva Contact e della sua intenzione di chiudere lo stabilimento di Segrate, dopo aver perso la commessa per il servizio di assistenza clienti Sky-Fastweb e in vista della scadenza di altri contratti. Gli sviluppi della vicenda non sono positivi, come segnala dalla propria pagina Facebook il collettivo autorganizzato AlmaWorkers. Dopo le assemblee tenute negli ultimi giorni, i lavoratori e le lavoratrici hanno indetto un presidio per martedì 26 maggio alle 9:00 sotto al Pirellone, a supporto della richiesta urgente di audizione presso la Commissione attività produttive di Regione Lombardia.

E con la fine del regime di “lockdown”, la sinistra politica sindacale milanese, già “orfana” del tradizionale corteo del Primo Maggio, decide di tornare in piazza. Lo farà mercoledì 27 maggio, a partire dalle 17.30, davanti al palazzo della Regione Lombardia. «Prendiamo parola, riprendiamo le piazze» è il titolo dell’iniziativa, promossa da Confederazione Unitaria di Base, Sinistra Anticapitalista, Fronte Popolare, Mai più lager – NO ai CPR e molte altre realtà politiche e sindacali (la raccolta delle adesioni è ancora in corso: primaveraecologicasociale@gmail.com). L’esteso appello di convocazione ricorda come, in Lombardia, «gli ospedali pubblici, martoriati dalle contro-riforme di aziendalizzazione e dalle decine di miliardi di euro tagliati (…), si sono trovati a dover arginare il dilagare dell’epidemia senza adeguate forniture di dispositivi di protezione, [e con] la saturazione dei posti letto, la mancanza di strumentazioni mediche e la non esecuzione di tamponi generalizzati». Dal canto suo, «il Governo ha deciso di rispondere durante l’emergenza COVID in due modi: con sgravi fiscali e regali economici alle imprese (…) a fronte di briciole per le lavoratrici e i lavoratori; e con un clima di pressante limitazione delle libertà personali, confini e punti sensibili della città militarizzati, minacce di utilizzare i droni per il controllo degli assembramenti».

Articolata la piattaforma rivendicativa, che chiede, tra l’altro, ammortizzatori sociali che coprano il 100% degli stipendi, il blocco dei licenziamenti, la sanatoria generalizzata e incondizionata per tutti gli/le immigrati/e, la realizzazione del diritto all’istruzione, alla mobilità, alla casa, alla sanità, partendo dalla cancellazione dei ticket sanitari, investimenti in produzioni sempre più a impatto zero, la tassazione fortemente progressiva dei redditi.

Un’iniziativa che, secondo noi, va nella giusta direzione, e che potrebbe essere l’inizio di un percorso virtuoso, soprattutto se si riuscirà ad ampliare ulteriormente la partecipazione di sindacati conflittuali, forze politiche, lavoratori e lavoratrici, verso la costruzione di un fronte unico che superi l’attuale frammentazione delle pur molteplici lotte di resistenza.

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